Ayoub As-Saliya aveva 12 anni. I suoi funerali sono stati celebrati in tarda mattinata a Jabalya, nel nord della Striscia di Gaza (nella foto rintracciabile su twitter, la sorella di nove anni). È la 17esima vittima dei raid israeliani che da tre giorni colpiscono Gaza. Gli israeliani parlano di 16 terroristi e di un ragazzo uccisi. Come dire, il resto delle vittime non sono civili. Saranno fonti indipendenti – si spera – a verificare quante delle vittime di questa pericolosissima fiammata di violenza tra Israele e Gaza fossero uomini in armi. Tra loro, dicono le fonti di informazione (quelle veramente attendibili), c’era anche un uomo di 60 anni, guardiano di campi coltivati. E tra i feriti c’è anche un bambino di sette anni, che spero – almeno questa volta – noi giornalisti non definiremo vittima collaterale.
Di certo, gli ultimi raid israeliani hanno avuto come bersaglio i Comitati di Resistenza Popolare e la Jihad islamica. Ucciso, in un omicidio mirato, il segretario dei PRC, Zuheir al Qaissi. I raid israeliani erano iniziati venerdì, dopo il lancio di due colpi di mortaio verso il Negev, precipitati in pieno deserto, per fortuna senza aver colpito persone o cose. Da quel momento, dopo i due colpi di mortaio, è partito l’attacco israeliano, che al terzo giorno non si è ancora concluso, e ha già causato 17 morti e almeno trenta feriti. Senza contare – perché questo non fa statistica – il terrore vissuto sotto i bombardamenti da migliaia e migliaia di persone. Queste, sì, civili. La risposta palestinese ai raid è stata a colpi di razzi: oltre cento sparati sul sud di Israele. Sei feriti, di cui un uomo in condizioni serie.
E dopo questi elementi di cronaca, qualche considerazione.
Anzitutto, il primo bersaglio, Zuheir al Qaissi, vittima di un omicidio mirato perché accusato dagli israeliani di preparare un grande attentato terroristico. Era il comandante dei Comitati di Resistenza Popolare, molto importanti nelle dinamiche delle fazioni armate dentro Gaza. Dunque, omicidio mirato e preventivo, contro un esponente di alto livello delle fazioni armate: Gideon Levy ha scritto un articolo perfetto, oggi. Al Qaissi è stato ucciso assieme a un altro militante, suo genero, che si dice fosse tra quelli liberati nello scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. Non è il primo, tra i palestinesi liberati nello scambio di prigionieri dello scorso ottobre, a essere stato colpito. Ce ne sono stati altri, arrestati di nuovo dagli israeliani, rompendo di fatto l’accordo concluso a ottobre con Hamas. E tra loro c’è anche Hana Shalabi, giovane donna palestinese, che è al 25esimo giorno di sciopero della fame, perché rifiuta il regime di carcere preventivo che le autorità israeliane usano di frequente nei confronti dei palestinesi.
Si tratta di una vera e propria escalation, da parte del governo presieduto da Benjamin Netanyahu, non solo nei confronti del PRC, ma delle fazioni armate che non sono sotto il diretto e formale controllo di Hamas. Non si tratta solo di omicidi mirati, quanto piuttosto della scelta di elevare il livello del conflitto. Perché? Lo si capirà meglio nei prossimi giorni, giorni in cui si dispiegherà la mediazione che l’Egitto ha iniziato oggi, per arrivare a una tregua.
Quello che si può già dire è che il bersaglio diretto di questi raid, a prescindere dall’omicidio mirato di Al Qaissi, è la Jihad Islamica. Eppure, la Jihad non aveva alzato il tiro, nelle scorse settimane e mesi. Anzi, se si è parlato della Jihad islamica palestinese, nelle scorse settimane, è stato perché ha usato strumenti diversi. Uno fra tutti, lo sciopero della fame, che ha costretto le autorità israeliane a trattare con i mediatori palestinesi la fine della detenzione amministrativa di Khader Adnan, protagonista di un digiuno durato più di quello di Bobby Sands. Subito dopo l’accordo, è stata Hana Shalabi a iniziare lo sciopero della fame, appena riarrestata dagli israeliani e detenuta, anche lei, in regime di carcere preventivo. La Jihad in Cisgiordania, dunque, ha usato uno strumento pacifico come il digiuno, uno strumento nei confronti del quale le autorità israeliane si sono mostrate sguarnite. Mentre – parallelamente – la Jihad a Gaza faceva sapere di non voler una escalation contro gli israeliani. Perché, dopo quello che era successo nella seconda intifada, le escalation armate si iniziano, ma poi si rischia di perderne il controllo.
E a conferma che in casa palestinese non si voglia una escalation armata (la si voglia o meno definire intifada, o attacco contro il sud di Israele con i razzi lanciati dalla Striscia) ci sono le conversazioni di oggi tra Mahmoud Abbas, il capo del bureau politico di Hamas Khaled Meshaal, e il capo della Jihad islamica Ramadan Shallah. Si deve evitare una escalation, hanno detto, per evitare di fornire agli israeliani un alibi per colpire Gaza. Le ferite dell’Operazione Piombo Fuso non si sono per nulla rimarginate, e poi la riconciliazione sembra veramente diventata un processo in corso. Dunque, una realtà, seppur ancora in fieri. Cadere con forza, determinazione e mezzi in un conflitto armato, per le fazioni palestinesi, vorrebbe dire ritornare indietro. Ritornare a square one. E questo non lo vuole nessuno, mentre continuano i negoziati per il governo di unità nazionale e le trattative per far arrivare di nuovo il carburante a Gaza, dall’Egitto.
Per ultimo, un addendum sul modo in cui i giornali israeliani, e la politica israeliana, parlano dei raid su Gaza. Tutti – e sottolineo tutti – si concentrano sulla performance dell’Iron Dome, il sistema di difesa missilistico con il quale Israele protegge le città del sud, a portata del tiro dei razzi. La performance è molto buona, sono stati moltissimi i razzi intercettati. Lo ha confermato lo stesso Bibi Netanyahu, per il quale il sistema ha provato le sue potenzialità. Cosa significa? Che l’attenzione di politici e militari israeliani è anche a quello che l’Iron Dome potrebbe fare dopo un possibile attacco israeliano ai siti nucleari iraniani?
Fonte: http://invisiblearabs.com
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