Duccio Valori, già direttore centrale dell'IRI, commenta per Altreconomia la bozza del decreto che verrà votato domani dall'esecutivo. In determinati settori il prevalere dell'interesse privato e la concorrenza non possono portare alcun vantaggio per il cittadino. Solo un ferreo controllo pubblico, capace di tenere a bada la sete di profitto dei maggiori gruppi di pressione, potrebbe farlo
In apparenza, le liberalizzazioni promosse dal governo Monti vanno a vantaggio del cittadino: la concorrenza servirebbe ad abbassare i prezzi ed migliorare la qualità dei beni e servizi offerti, l’ingresso di nuovi operatori sarebbe avvantaggiato, il mercato, questo nuovo idolo, ottimizzerebbe tanto la domanda quanto -e soprattutto- l’offerta.
In realtà, le cose non stanno così. Ciò che appare intuitivo a prima vista, si rivela illusorio e addirittura negativo ad un esame più attento.
Se si apre un numero maggiore di farmacie, o se si concede un maggior numero di licenze di taxi, la domanda di farmaci e di trasporti privati resta la stessa; a meno che non si ritenga che i malati evitino di curarsi se trovano la farmacia chiusa (o se non trovano nessuna farmacia), o che i cittadini che non trovano il taxi pronto al loro servizio non rinuncino al trasporto (non esistendo, di fatto, l’alternativa del trasporto pubblico che o non esiste o è assolutamente inaccessibile per problemi di efficienza, puntualità e qualità).
Considerazioni non dissimili valgono per l’ipotesi di liberalizzazione dei distributori di carburante: fermi restando il costo del barile di petrolio, e quello della raffinazione e del trasporto, e ferme restando -purtroppo- le pesanti accise, l’unico costo che potrebbe essere eroso dalla concorrenza (meglio, dal libero mercato!) è il margine del distributore: margine che è già tanto modesto, che lo stesso decreto Monti prevede di integrarlo con la vendita di giornali, gadgets e balle varie. E dunque, anche la protesta dei distributori non appare del tutto ingiustificata.
Ma ben più seri sono i problemi posti dalla cosiddetta liberalizzazione delle reti: in altri termini, quelli consistenti nell’eliminazione dei cosiddetti monopoli tecnologici. Gli esempi non sono pochi: si va dalla separazione delle reti ferroviarie dai trasporti ferroviari alla separazione delle reti di trasporto dell’energia elettrica dalla produzione dell’energia elettrica stessa, fino ad arrivare oggi alla separazione della rete gas dalla produzione dello stesso gas, e forse domani (contrariamente a quanto previsto dal recente referendum popolare) a provvedimenti non diversi per l’acqua, anch’essa fornita tramite reti, anche se a livello locale anziché nazionale.
Dov’è lo sbaglio? Perché il mercato, che -pure con tutti i difetti apparsi negli ultimi tempi- dovrebbe garantire ricchezza e felicità a tutti, appare in questo caso sostanzialmente inadeguato?
La separazione tra treno e rotaia, o tra gas e tubo, implica che le due società -titolari l’una del tubo o della rotaia, e l’altra del gas o del treno- cerchino di massimizzare i propri utili, e quindi i profitti; ciò che può essere ottenuto sia riducendo i costi, sia aumentando i ricavi. Ridurre i costi significa tagliare sulle manutenzioni, come è avvenuto proprio nel primo Paese che ha separato treno e rotaia, il Regno Unito: conseguenza, peggioramento degli standard di sicurezza, guasti, ritardi, ecc. Aumentare i ricavi significa, nei casi citati, alzare le tariffe: il che sembrerebbe andare decisamente contro i principi della liberalizzazione stessa, che dovrebbe andare a vantaggio, e non a detrimento, dei cittadini/utenti.
Il problema non semplice dei monopoli tecnologici, e quindi del potenziale abuso delle posizioni di rendita che questi determinano, non si risolve con un utopistico ricorso alla concorrenza tra tubo e gas, o tra rotaia e treno, ma -come è sempre storicamente avvenuto- con la regolamentazione delle tariffe: se il gas (o il biglietto del treno) costano x, sarà interesse del gestore economizzare sui costi di approvvigionamento e di trasporto, proprio al fine di massimizzare il proprio utile; e poco importa che questo sia determinato dalla rotaia -o dal tubo- anziché dal treno o dal gas.
Naturalmente, quanto detto parte dal presupposto che esista un’Autorità pubblica in grado di fissare equamente le tariffe, e che questa Autorità sia ragionevolmente soggetta a istanze politiche e popolari: ad esempio, che determini tariffe o prezzi politici per determinati servizi pubblici che non possono essere ceduti ad un prezzo tale da remunerare costi fissi e variabili, come il trasporto collettivo, o che consentano alle società che estraggono e trasportano gas, come l’ENI e la SNAM, di realizzare profitti sufficienti sia alla manutenzione adeguata delle reti, sia a coprire i costi della ricerca e dell’estrazione.
È evidente che un’Autorità pubblica sarà quasi inevitabilmente soggetta alle pressioni dei grandi gruppi di potere, fortemente avvantaggiati in termini economici e mediatici rispetto ai funzionari pubblici che dovrebbero prendere decisioni di tanta importanza: ma è proprio qui, e non in velleitari ricorsi alla sovranità del mercato, che il governo Monti dovrà far valere la propria differenza rispetto ai governi che lo hanno preceduto.
Altreconomia
In apparenza, le liberalizzazioni promosse dal governo Monti vanno a vantaggio del cittadino: la concorrenza servirebbe ad abbassare i prezzi ed migliorare la qualità dei beni e servizi offerti, l’ingresso di nuovi operatori sarebbe avvantaggiato, il mercato, questo nuovo idolo, ottimizzerebbe tanto la domanda quanto -e soprattutto- l’offerta.
In realtà, le cose non stanno così. Ciò che appare intuitivo a prima vista, si rivela illusorio e addirittura negativo ad un esame più attento.
Se si apre un numero maggiore di farmacie, o se si concede un maggior numero di licenze di taxi, la domanda di farmaci e di trasporti privati resta la stessa; a meno che non si ritenga che i malati evitino di curarsi se trovano la farmacia chiusa (o se non trovano nessuna farmacia), o che i cittadini che non trovano il taxi pronto al loro servizio non rinuncino al trasporto (non esistendo, di fatto, l’alternativa del trasporto pubblico che o non esiste o è assolutamente inaccessibile per problemi di efficienza, puntualità e qualità).
Considerazioni non dissimili valgono per l’ipotesi di liberalizzazione dei distributori di carburante: fermi restando il costo del barile di petrolio, e quello della raffinazione e del trasporto, e ferme restando -purtroppo- le pesanti accise, l’unico costo che potrebbe essere eroso dalla concorrenza (meglio, dal libero mercato!) è il margine del distributore: margine che è già tanto modesto, che lo stesso decreto Monti prevede di integrarlo con la vendita di giornali, gadgets e balle varie. E dunque, anche la protesta dei distributori non appare del tutto ingiustificata.
Ma ben più seri sono i problemi posti dalla cosiddetta liberalizzazione delle reti: in altri termini, quelli consistenti nell’eliminazione dei cosiddetti monopoli tecnologici. Gli esempi non sono pochi: si va dalla separazione delle reti ferroviarie dai trasporti ferroviari alla separazione delle reti di trasporto dell’energia elettrica dalla produzione dell’energia elettrica stessa, fino ad arrivare oggi alla separazione della rete gas dalla produzione dello stesso gas, e forse domani (contrariamente a quanto previsto dal recente referendum popolare) a provvedimenti non diversi per l’acqua, anch’essa fornita tramite reti, anche se a livello locale anziché nazionale.
Dov’è lo sbaglio? Perché il mercato, che -pure con tutti i difetti apparsi negli ultimi tempi- dovrebbe garantire ricchezza e felicità a tutti, appare in questo caso sostanzialmente inadeguato?
La separazione tra treno e rotaia, o tra gas e tubo, implica che le due società -titolari l’una del tubo o della rotaia, e l’altra del gas o del treno- cerchino di massimizzare i propri utili, e quindi i profitti; ciò che può essere ottenuto sia riducendo i costi, sia aumentando i ricavi. Ridurre i costi significa tagliare sulle manutenzioni, come è avvenuto proprio nel primo Paese che ha separato treno e rotaia, il Regno Unito: conseguenza, peggioramento degli standard di sicurezza, guasti, ritardi, ecc. Aumentare i ricavi significa, nei casi citati, alzare le tariffe: il che sembrerebbe andare decisamente contro i principi della liberalizzazione stessa, che dovrebbe andare a vantaggio, e non a detrimento, dei cittadini/utenti.
Il problema non semplice dei monopoli tecnologici, e quindi del potenziale abuso delle posizioni di rendita che questi determinano, non si risolve con un utopistico ricorso alla concorrenza tra tubo e gas, o tra rotaia e treno, ma -come è sempre storicamente avvenuto- con la regolamentazione delle tariffe: se il gas (o il biglietto del treno) costano x, sarà interesse del gestore economizzare sui costi di approvvigionamento e di trasporto, proprio al fine di massimizzare il proprio utile; e poco importa che questo sia determinato dalla rotaia -o dal tubo- anziché dal treno o dal gas.
Naturalmente, quanto detto parte dal presupposto che esista un’Autorità pubblica in grado di fissare equamente le tariffe, e che questa Autorità sia ragionevolmente soggetta a istanze politiche e popolari: ad esempio, che determini tariffe o prezzi politici per determinati servizi pubblici che non possono essere ceduti ad un prezzo tale da remunerare costi fissi e variabili, come il trasporto collettivo, o che consentano alle società che estraggono e trasportano gas, come l’ENI e la SNAM, di realizzare profitti sufficienti sia alla manutenzione adeguata delle reti, sia a coprire i costi della ricerca e dell’estrazione.
È evidente che un’Autorità pubblica sarà quasi inevitabilmente soggetta alle pressioni dei grandi gruppi di potere, fortemente avvantaggiati in termini economici e mediatici rispetto ai funzionari pubblici che dovrebbero prendere decisioni di tanta importanza: ma è proprio qui, e non in velleitari ricorsi alla sovranità del mercato, che il governo Monti dovrà far valere la propria differenza rispetto ai governi che lo hanno preceduto.
Altreconomia
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