lunedì 28 gennaio 2013

TANTI SOLDI E POCA TRASPARENZA. ECCO IL BUSINESS DELLA CARITÀ

"A Wall Street peserebbe quanto Apple. Alla Borsa di Milano sei volte l'Eni. I loro fondi riuniti rappresentano la quinta economia mondiale. Hanno in mano un grande potere". Valentina Furlanetto, giornalista e autrice del libro "L'industria della carità", svela le opacità sul mondo delle ong in un'intervista ad Affaritaliani.it: "Le associazioni sono ormai delle grosse multinazionali. Hanno ceduto alla logica del marketing. E in un Paese come il nostro, dove regna la corruzione, andare a rompergli le scatole sembra sbagliato. Ma è giusto pretendere trasparenza". 

In che modo la carità diventa un'industria, come recita il titolo del tuo libro?

In realtà sotto la parola "carità" ci sono molte cose. Il titolo del libro forse dà già un giudizio su cose molto diverse. Quello che ho fatto io è stato occuparmi di alcune associazioni che fanno parte del grande mondo del terzo settore. Non potevo occuparmi di tutto, ho fatto una panoramica a volo di uccello sulle principali realtà. Mi rendo conto che si tratta di una fotografia parziale ma di libri che parlano bene di no profit e carità sono piene le librerie. Ed è anche giusto che sia così, però penso ci fosse la necessità di raccontarne anche le opacità. Andare a vedere i conti, la trasparenza e l'efficienza di queste associazioni. Ci voleva un libro non buonista.

Nel libro tocchi molti argomenti. Dalle fondazioni bancarie alle adozioni a distanza fino al mercato dei vestiti usati. Tutti filoni che poi trovano riscontro anche nelle cronache degli ultimi mesi...

Beh, sì, c'è stato recentemente l'arresto del segretario dell'Istituto dei Ciechi di Milano, il caso dell'asilo Mariuccia... Nel libro parlo anche di altre cose che sui giornali non sono mai apparse. Per me era importante buttare tanti sassolini. Con questo non voglio dire che tutto il terzo settore operi male. Però è un mondo che era nato proprio per evitare gli sprechi della cooperazione di Stato e il Welfare. Oggi, con un giro di denaro pari a 67 miliardi, la gestione è diventata complicata. Alcuni operano bene, altri male. È giusto cercare di capire il perché.

Quando il no profit ha ceduto al business?

Il terzo settore ammonta al 4,3% del pil, come la moda. Per esempio, per le adozioni internazionali girano 45 milioni l'anno e il Cifa, l'ente più grande del settore, ne conta 12 di cui 4 fermi per garanzia. Poi succede che arrivino degli sconosciuti e facciano una scalata lanciando un'opa. In quel caso il Cifa era in buona fede e non se lo aspettava. Hanno promesso che avrebbero rivisto lo statuto. Gli enti e le associazioni devono loro stessi tutelarsi ed equipaggiarsi con più regole.

Un giro di denaro così imponente inevitabilmente porta all'esercizio di un potere. Per il no profit in che cosa si concretizza questo potere?

Quando glorifichiamo l'associazionismo e il volontariato dovremmo ricordarci di guardare anche al rovescio della medaglia e quindi a uno Stato che non fa il suo dovere. Quando il no profit ha questi numeri significa già che lo Stato ha fallito. In Italia si è delegato troppo all'associazionismo. Questi enti dovrebbero essere un qualcosa in più, non farsi carico di tutto. E comunque, certo, il no profit esercita un grande potere. Quando si decide di sponsorizzare una ricerca piuttosto che un'altra già si sta esercitando un potere. Nella beneficenza non c'è un controllo democratico. La beneficenza è un esercizio di potere. Quando Bill Gates con la sua fondazione va a vaccinare i bambini fa una cosa meritoria però decide lui dove e quando farlo. E magari nello stesso momento la sua fondazione veniva finanziata dalle aziende che in quella stessa zona inquinavano e provocavano le malattie ai bambini. La filantropia è un esercizio di potere e di sussidiarietà in cui lo Stato cala le braghe. E se negli Stati Uniti si sono attrezzati con degli anticorpi in Italia non è così. Abbiamo mutuato degli atteggiamenti tipicamente americani senza però avere i paletti necessari a regolamentarli.

Quali sono gli strumenti di cui ci sarebbe bisogno?

L'obbligatorietà dei bilanci, la rendicontazione e l'efficacia dei progetti. Così va a finire che magari costruisci una scuola ma che poi non c'è elettricità o non ci sono le strade per arrivarci.

Lo scorso luglio la Corte dei Conti ha diffuso un rapporto molto critico nei confronti delle ong. È cambiato qualcosa in questi mesi?

Zero. I giudici contabili purtroppo li ascoltano poco, cade tutto nel dimenticatoio. E poi in un Paese come l'Italia con tutta questa corruzione e i bilanci opachi dei partiti andare a fare le pulci alle associazioni sembra, non so, di andare a vedere le doppie punte a Kate Moss. Però se vogliamo diventare un paese normale dovremmo fare anche questo. Le associazioni mettono la loro reputazione al centro del loro operato. Proprio per questo dovremmo chiedere e pretendere ancora più trasparenza. Andrebbe solo a loro vantaggio.

Se la carità è un'industria il prodotto è la povertà. Come si vende questo prodotto?

Attraverso le donazioni, talvolta il sostegno degli enti pubblici e le raccolte fondi. Raccolte da organizzare con pubblicità e marketing. È normale che le associazioni debbano farsi conoscere. Però non è possibile che venga usata, come qualche volta accade, la stessa percentuale per finanziare i progetti umanitari e per fare marketing. Lo scopo di queste associazioni dovrebbe essere quello di chiudere dopo aver fatto il loro dovere, non quello di sopravvivere e diventare più grosse. Non si dovrebbe gridare "emergenza, emergenza" per avere nuovi fondi. Poi finisce che vengono costruite città e cittadelle perpetue in paesi come il Congo o Haiti. I territori di guerra non sono neutri. Stare lì per anni e anni senza mai dare il controllo alle popolazioni del luogo non è una cosa indifferente. Medici Senza Frontiere, per esempio, ha fatto una grande riflessione su questo tema. Spesso andando lì facciamo più per noi che per loro.

Da questo discorso sembra che le logiche del no profit siano diventate del tutto simili a quelle delle multinazionali. Esistono dei punti sui quali invece continuano a essere diverse?

Il no profit ha mutuato tutta una serie di atteggiamenti del profit. Un esempio molto italiano è il passaggio delle associazioni da padre a figlio. Se ci sono cose che non sono state assunte dal profit? Sì. Per esempio, al profit si chiedono la trasparenza dei conti e l'efficienza. A queste associazioni invece no. È giunto il momento di farlo.
Valentina Furlanetto

Articolo già pubblicato su Affaritaliani.it (a cura di Lorenzo Lamperti) 

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