giovedì 24 gennaio 2013

Il coraggio di pochi, il silenzio di molti: sentirsi “normali” di fronte alle mafie


Quando ho scritto la canzone “Quel giorno in cui credevo di essere normale (e invece mi sono dovuto nascondere)“, qualche mese fa, era un periodo un po’ particolare: era uscito un mio articolo in cui, con una presa di coraggio e per evitare il silenzio generale, denunciavo una rissa accaduta tra due gruppi di persone diciamo “poco raccomandabili” in un locale che, quella sera, era gestito da tre donne, nel mio paesino calabrese.
Visto che la “cultura del silenzio“, da noi, è molto popolare, il mio gesto ha avuto un’eco molto grande, sia in ambito nazionale che in ambito locale, su quotidiani e blog calabresi, e sulla bocca di molti, soprattutto miei compaesani. Il giorno dopo ho avuto una grande paura, per un sacco di motivi validi, e ho preferito tornarmene a casa, a Bologna, con qualche giorno di anticipo.
La conseguenza di tutto ciò è stata quella di aver ricevuto tanta solidarietà, appoggio e condivisione da parte di persone dislocate un po’ in tutta Italia e anche in ambito locale, con l’eccezione di una buona parte di persone che, seguaci della “cultura del silenzio“, mi hanno giudicato “incosciente“, “pazzo“, pensando che avrei dovuto farmi i cazzi miei e robe simili. Non tutte queste cose, ovviamente, mi sono state dette in faccia, alcune sì, altre mi sono state riferite, altre ancora erano intuibili dai gesti e dalle facce di determinate persone che, comunque, conosco. Tra l’altro non c’è stato nessun altro che ha deciso di metterci la faccia e dire qualcosa pubblicamente, né tra le “istituzioni” né tra la gente comune, ma questa è un’altra storia (di cui non me ne frega niente).
Il problema è che io davvero “credevo di essere uno normale” facendo quel gesto. Ma visto che “la lezione la fa la gente che vorrebbe ma non se la sente” allora ho dovuto sottostare alla loro cultura del silenzio e al loro giudizio osservando compiaciuto il non cambiamento delle cose.
Questa sensazione di “normalità” l’hanno avuto in misura decisamente maggiore e concreta persone che adesso vivono addirittura sotto scorta, perché hanno pensato che denunciare la mafia o la ‘ndrangheta potesse essere un gesto davvero normale, perché è giusto che sia così. Allora hanno scritto libri, articoli sui giornali, su internet, in cui prendevano di mira, giustamente, boss mafiosi e collusi.
Tra i vari nomi, come Roberto Saviano, Rosaria Capacchione e altra gente “normale”, c’è quello diGiovanni Tizian, un giovane ragazzo che dopo essere stato costretto a trasferirsi in Emilia Romagna perché la ‘ndrangheta gli aveva ucciso il padre a colpi di lupara nel 1989, ha iniziato a non farsi gli affari suoi, a sentirsi normale, a documentarsi e a scrivere degli orrori della ‘ndrangheta.
Oggi è uscita un’intercettazione tra un faccendiere piemontese e un boss della ‘ndrangheta in cui si parlava dei problemi che questo ragazzo stava causando al “povero” mafioso che scriveva dei suoi loschi affari sui giornali e del ridicolo faccendiere che rispondeva “dammi il nominativo che ci penso io, così o la smette o gli sparo in bocca“.
Ecco, Giovanni Tizian è un esempio di normalità ed io vorrei guardare in faccia quelle persone che davvero pensano che chi denuncia la criminalità e le mafie siano delle persone pazze ed incoscienti e che dovrebbero farsi i fatti loro; e poi vorrei vedere la loro dignità affievolirsi piano piano, vorrei vedere la vergogna sui loro volti, sui volti di quelle persone che osannano i criminali quando escono di galera innalzandoli ad eroi nazionali, di chi prende per normale il pagamento del pizzo, di chi fa finta di non guardare, di non sapere, di chi pensa “ma chi te l’ha fatto fare!”
In quella telefonata, il faccendiere dice al boss: “sai quali sono i due poteri, oggi, in Italia? la magistratura e i giornali“.
Ce ne sarebbe un terzo: la gente. Ma siamo troppo stupidi per capirlo.
Federico Cimini QdS

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