giovedì 19 luglio 2012

L'assassinio di Borsellino un mistero lungo 20 anni



Roberto Saviano presenta il nuovo libro di Enrico Deaglio sulla strage di via D’Amelio e sui misteri che da sempre la circondano: "Abbiamo pianto quella morte e oggi siamo di nuovo qui a chiederci: perché come, chi è stato?"
di ROBERTO SAVIANO Repubblica


VENT'ANNI FA, dal condominio di via D'Amelio esce un uomo, con la sua famiglia. Fa un gesto che all'epoca deve essere sembrato insignificante: scaccia i bambini che giocano vicino a un'utilitaria parcheggiata. È Salvatore Vitale, abita nello stesso palazzo della madre di Borsellino, sarà poi accusato di essere uno degli esecutori materiali della strage.

Vent'anni fa, nello stesso condominio di via D'Amelio, entra Paolo Borsellino: deve portare sua madre dal medico, ma non ne avrà il tempo. Rivediamo la terribile sequenza di immagini: una tranquilla strada in uno dei quartieri cresciuti come erbacce alle pendici del monte Pellegrino, su cui sta appollaiato il Castel Utveggio, sede forse dei servizi segreti e forse luogo da cui sarebbe stato azionato il telecomando della bomba. Un boato tremendo, auto scaraventate in aria, una stradina devastata.

Sulla scena accorre subito una moltitudine di persone, che rende difficile il lavoro di chi dovrebbe fare i rilievi. Così il 19 luglio del 1992 muoiono Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Uno solo si salva: è Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta. Così comincia un mistero che non è stato ancora chiarito.

In questi momenti mi manca Peppe D'Avanzo. Oggi, a vent'anni dalla morte di Paolo Borsellino, credo che nessuno come lui sarebbe stato in grado di ricostruire la storia della nostra Repubblica con altrettanta lucidità. Nessuno come lui sarebbe stato in grado di mettere insieme vent'anni di storia giudiziaria, di inchieste, di false piste, di errori, di successi e collegare tutto al dramma che stiamo vivendo in queste ore. Il dramma di una crisi economica devastante, che non è causata solo da fattori esterni, ma da una cattiva gestione della cosa pubblica divenuta endemica e quasi "incurabile", mentre sul Paese continua ad aggirarsi il fantasma di Berlusconi tentato da una ricandidatura.

Ecco, Peppe avrebbe forse messo insieme tutto questo, restituendoci la complessità in un quadro d'insieme con cui qualcuno avrebbe dissentito, ma che sarebbe comunque stato un modo coraggioso di spiegare il presente attraverso la lente del passato. In quegli anni, negli anni delle stragi, era fin troppo evidente che si stava combattendo una guerra, ma noi che osserviamo e interpretiamo oggi facciamo una fatica immensa a individuare le parti in campo, a capire esattamente quali interessi erano stati lesi e quale ordine precostituito si volesse mantenere con quel terrore.

Le stragi del '92 e del '93 in Italia sono tutt'altro che storia superata, metabolizzata, chiarificata. Se le stragi del '93 erano un tentativo da parte della mafia di contrattare con lo Stato condizioni di vita meno dure nelle carceri, gli effetti sono stati di breve durata. Io ho sempre ritenuto che gli attentati fossero gli ultimi rantoli di una bestia morente, di una bestia che era stata colpita al cuore come mai era accaduto prima.

Di una bestia che aveva sempre agito indisturbata e che invece, con il lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, era stata finalmente smascherata. Nel 1978 era morto Peppino Impastato, nel 1984 Pippo Fava, nel 1990 Rosario Livatino, senza che la società civile italiana, tutta, si fosse sentita davvero colpita al cuore. Falcone e Borsellino avevano compiuto quella rivoluzione civile, anzi, come dicevano loro "culturale" che il nostro paese aspettava, avevano toccato i tasti giusti e l'avevano fatto in un momento in cui le persone, da Milano a Palermo, erano pronte a seguirli.

Oggi, in questo dibattito, si inserisce un libro Il vile agguato. Chi ha ucciso Paolo Borsellino. Una storia di orrore e menzogna (Feltrinelli) di Enrico Deaglio. L'ho letto cercando di rimanere calmo. Di non lasciarmi aggredire dalla rabbia che ti sale leggendo per quanti anni depistaggi, menzogne, falsità, bugie, corruzioni, sono colate come irrefrenabile lava sulla tragedia di Paolo Borsellino. Ma poi mi sono chiesto se in un certo senso non fossimo tutti colpevoli di aver permesso che verità rassicuranti coprissero con un velo di comoda ignoranza la sua morte, mentre gli intitolavamo piazze e scuole.

Ecco cosa si prova a leggere queste pagine: l'assurdità. Non aver raggiunto una verità sui colpevoli della morte di Paolo Borsellino e dei suoi uomini corrode la democrazia italiana, corrode la fiducia, corrode l'empatia sociale, alimenta lo sconforto, la diffidenza che mai come ora è un sentimento dannatamente predominante nel nostro Paese. Quando è morto Falcone avevo 12 anni. Ero a Paestum, dove forse mi avevano già spedito in vacanza. Oppure semplicemente ero lì con tutta la famiglia per il fine settimana.

Un fine settimana di maggio. Ricordo solo che stavo in cucina, che la televisione era accesa e che mia zia d'improvviso si mise davanti alla tv. La coprì tutta con la sua schiena. Noi bambini non capivamo perché non volesse vedere, non capivamo perché volesse oscurare tutto. Giocavamo con una palla di gommapiuma in casa, non stavamo nemmeno guardando la tv, eppure lei si mise davanti, col suo corpo minuto, a coprire lo schermo quadrato di una piccola e vecchia Sony. Aveva le lacrime agli occhi, ci guardava come se non ci vedesse, agitava la testa e ripeteva "No, no, no". Nessuno di noi faceva domande.

I bambini del Sud cresciuti negli anni '80-'90 con faide di mafia, tensioni continue in strada e in casa, polizia e posti di blocco, sanno contenere le domande. Sarebbe stato naturale puntare il ditino verso lo schermo e chiedere spiegazioni. Noi no. Non chiedevamo, sentivamo che era accaduta la solita cosa, quella che quando accadeva se chiedevi qualcosa ti guardavano storto e chiudevano con "Niente, niente". Ricordo di essermi seduto a terra, gambe incrociate all'indiana, come faccio ancora oggi, e mi guardavo intorno. Fuori sentivo che tutte le case dei vicini avevano la tv accesa. Qualcuno la radio. C'era un silenzio irreale. Solo le voci dei bambini.

Il Tg3 confermò l'attentato. C'era una donna con i capelli corti che ne parlava da Palermo e ogni tanto si vedevano immagini incredibili: cemento e terra divelta. Lamiere e tante persone che si aggiravano come in trance tra le macerie. Capii che avevano ucciso un giudice e dei poliziotti. Mi feci coraggio e infransi la regola del bimbo di paese che non deve mai fare domande sul sangue e sui morti ammazzati. Riuscii finalmente ad alzarmi e chiesi: perché? Il 19 luglio dello stesso anno si è ripetuta una scena simile. Sempre a Paestum. Ricordo caldo afa sudore e lacrime. Lacrime per una morte che anche un dodicenne sentiva come annunciata. E oggi siamo ancora qui a chiederci: Perché? Come? Chi?

"Ora che sono passati vent'anni  -  scrive Deaglio nel suo libro  -  non solo non sappiamo chi l'ha ucciso, ma innumerevoli versioni, continue verità, continuano ad ucciderlo. Borsellino viene continuamente riesumato in uno spettacolo macabro che insulta la sua memoria e noi spettatori. È stato Scarantino. No Spatuzza. È stato Riina; no, i fratelli Graviano. La polizia ha imbeccato Scarantino per proteggere i veri colpevoli. È come piazza Fontana. È stato lo Stato, lo Stato Mafia, la Mafia Stato; il Doppio Stato. È stato Berlusconi, o perlomeno Dell'Utri. Sono stati i servizi. Deviati. No, quelli ufficiali. Sono stati Ciancimino e Provenzano. Sono stati gli industriali del Nord. È stato il ministro Mancino... La sua morte era necessaria alla trattativa. Anzi, era l'essenza della trattativa. (A proposito  -  cos'è che stavano trattando?) È stato un volontario, lucido sacrificio di Borsellino che si è offerto come vittima per salvare la sua famiglia. È stata la prova della potenza infinita di Cosa Nostra a cui nessuno può sfuggire. È stato il Fato, del quale era in balia... "

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