L'ex leader del Pd sostiene entusiasticamente il nuovo presidente del Consiglio e rompe il tabù, nel partito, sull'articolo 18. E' subito faida. Fassina: "La prima regola per un dirigente nazionale sarebbe quella di affermare la posizione del gruppo politico di cui è parte"
L’hanno coniata a tempo di record i geniacci perfidi di Spinoza: “Come è noto nel Pd esistono due visioni delle cose: una miope e una astigmatica”. Una sintesi satirica – ma non per questo meno sbagliata – del caso che è nato intorno all’intervista dirompente di Walter Veltroni sull’articolo 18. E così – ancora una volta – il partito torna ad agitarsi intorno allo spirito etereo del veltronismo. E così – ancora una volta – il Pd torna a metabolizzare arsenico, vecchi merletti, antichi rancori e frammenti di battaglia politica malamente sedata intorno alle coordinate conflittuali di odio amore per il suo fondatore. Perché le cose sono complesse in questa ennesima faida democratica: solo una storia rimossa e non metabolizzata, quella delle dimissioni con cui Veltroni nel 2008 lasciò traumaticamente la segreteria (senza spiegare perché), infatti, può far comprendere l’ondata di rabbia di una parte dei militanti che su twitter e su internet ha investito l’ex sindaco.
E solo un senso di revanche può spiegare la linea dell’ex leader che annuncia di smantellare la propria corrente, rompe sul tema più delicato per il partito (il mercato del lavoro) e allo stesso tempo fornisce una sponda al pezzo di popolo democratico che tifa Monti. Su Repubblica, intervistato da Curzio Maltese, l’ex segretario ha detto che Il Pd deve sostenere Monti entusiasticamente, e non certo con il mal di pancia (“Non possiamo lasciarlo alla destra”). E poi ha aggiunto la frase che fa da detonatore, quella secondo cui l’articolo 18 “non deve essere considerato un tabù”. Quasi curioso lo stupore suscitato da queste parole. Da tempo i veltroniani non facevano mistero di considerare il governo Monti non una dura necessità (come dicono i bersaniani o come ripete la Bindi quando dice: “Questo non è il nostro governo”) ma un punto alto nella storia del riformismo italiano. Aveva fatto epoca una battuta di Walter Verini, deputato e dioscuro del segretario, che dopo il primo sondaggio di Ballarò in cui si rivelava per la prima volta il buon gradimento demoscopico del premier, ripeteva ai colleghi: “Adesso questo me lo ritaglio, per farlo rileggere a tutti quelli che pronosticavano catastrofi e crolli di consenso!”. E nemmeno era un mistero che per Enrico Morando, altro pilastro dell’area Modem “La nascita del governo Monti è la più grande fortuna che sia toccata al nostro paese”. O che Beppe Fioroni ha immaginato una pregiudiziale “montiana” persino su Genova: “Come possiamo sostenere Marco Doria, uno che per tutta la campagna delle primarie ha criticato il governo?”.
Ma Veltroni ha calato il suo asso nel momento più delicato del dibattito politico, proprio quando intorno alla triangolazione governo-Pd-Cgil Pier Luigi Bersani sta giocando la sua partita più delicata per tenere insieme tutti i pezzi. Dopo l’intervista-choc al Corriere della Sera in cui per la prima volta la Fornero prospettava l’abolizione dell’articolo 18 (e anche in quel caso ricorrendo alla parola “tabù”), Bersani era riuscito a frenare la deflagrazione della polemica interna. Adesso accade esattamente il contrario e a mettere il carico è stata la lettera aperta di Stefano Fassina a L’Unità: “La prima regola per un dirigente nazionale – ha attaccato duro – sarebbe quella di affermare la posizione del partito di cui è parte. La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art. 18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito e più vicina, invece, alla linea del ‘pensiero unico’ e alle proposte del centrodestra: è una constatazione, un fatto”. Certo, anche ieri Verini sottolineava che a essere sopra le righe per lui era Fassina: “Che cosa vogliono da noi? Che ci cuciamo la bocca in nome della posizione ‘maggioritaria’ del partito? Suvvia – sorride il deputato – non credo che sarebbe una buona cosa”.
E gli uomini dello staff, senza negare le tante proteste aggiungono che a Veltroni, in forma pubblica (ma soprattutto privata) sono arrivati tantissimi “Sostegni pesanti”, non solo da cittadini, ma anche da altri dirigenti del Pd. Su twitter Veltroni continuava a replicare. Sull’articolo 18: “Ho detto molto meno di quanto ha detto mille volte Bersani”. E subito dopo: “Bisogna avere il coraggio di discuterne. Civilmente. Senza che una opinione diversa diventi una opinione del nemico. Teorie pericolose”. E infine, più tardi: “Comunque grazie a tutti. Davvero. Anche delle posizioni più critiche. Spero di aver fatto capire meglio. Avere opinioni diverse è democrazia”. Sempre su Twitter, arrivano consensi e dissensi. Quello di Nichi Vendola, coordinatore di Sel che dichiara di essere “trasecolato” e dice: “Veltroni indica come un retaggio novecentesco tutto ciò che è appartenuto al campo delle conquiste sociali e dei risultati di decenni di lotte. È una curiosa idea di modernità e riformismo – conclude – quella che guarda con antipatia alla Fiom e con simpatia a Marchionne“. E poi quello di Pier Ferdinando Casini: “Speriamo che alcuni sinistri non vogliano mandare Veltroni al rogo per le sue idee sull’articolo 18 “. L’unico a non dire nulla è Monti. Atarassico, olimpico, distante. La politica, anche quando sceglie di sostenerlo, e quando si illude di prendere la sua parte, sembra solo un gioco di ombre cinesi sulla parete della caverna.
Da Il Fatto Quotidiano del 21/2/2012 di Luca Telese
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