lunedì 19 novembre 2012

Welcome to Palestine


Le riflessioni di Marta Ecca, Assessore alle Politiche Giovanili della Provincia di Cagliari, di ritorno dalla "Missione di pace in Israele e Palestina".



I colori invadono Betlemme, la mattina del 28 ottobre.
Cosi inauguriamo la nostra presenza in una terra che, in realtà, ti accoglie con un panorama sfacciatamente e, a volte, strategicamente monocromatico.
Colline dalle sfumature gialle e rossicce, poco verde a disposizione dei pochi che hanno pensato bene di confiscarlo ai più, nessuna netta distinzione fra quel che è in comune e quel che è tassativamente negato.
Non tutto è per tutti. Ancora meno le strade.
Non un cartello a indicare la contemporanea esistenza di due mondi cosi intimamente divisi, non un palese cenno al quotidiano conflitto.
Siamo arrivati di notte, il 27.
Gli occhi ancora non hanno visto.
La mente non ha realizzato.
Il cuore è in stand by.
L'unico ricordo fresco e immediato di quell'intensa giornata di viaggio, è l'immagine di una donna dal viso coperto dal velo, con ai piedi un tacco vertiginoso e femminile: uno strano connubio che, dal pullman, ha strappato un ingenuo sorriso a molti di noi e, successivamente, ha lasciato spazio ai primi pensieri di una settimana che si sarebbe certamente rivelata impegnativa.
 
La mattina del 28, dopo il colorato esordio, ci accoglie in Comune il Sindaco di Betlemme, Victor Batarseh, con alle spalle il mezzo busto appeso di Yāsser ʿArafāt. Con lui, l'esperto OCHA (Ufficio dell’Onu di Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati), grazie al quale ci vengono forniti i primi cenni storici, i dati e l'evoluzione politica e sociale della città, di Israele e della Palestina.
Betlemme, città oppressa dal muro.
Ma ciò che toglie ancor più il fiato sono le cartine esplicative della situazione attuale nella Striscia di Gaza.
Si rincorrono numeri, linee e colori pensati per arricchire una mappa problematica, confusa e non facilmente leggibile.
La difficoltà, nella lettura, sta anche e soprattutto nel voler dare una spiegazione in merito alla posizione delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea dinnanzi a uno scempio simile.
 
Come si è arrivati a tutto questo?
Possibile che le proposte in campo, Stato unico o due Stati, siano brutalmente ridimensionate e zittite dai fatti?
 
Tante, troppe domande.
 
Alcune di queste, avremmo voluto rivolgerle alla gente del luogo, alle famiglie palestinesi che ci hanno accolto per pranzo.
Ma abbiamo deciso di vivere quelle poche ore insieme spazzando via dalla mente muro, filo spinato, occupazione, espropri e Nazioni Unite.
Questi i propositi.
Ma, nel momento in cui si è parlato della nostra Sardegna e del rapporto che noi sardi viviamo con il mare, gli occhi di Lina e Domiana si sono improvvisamente incupiti.
Il mare, loro, non hanno mai potuto vederlo.
Significherebbe affrontare non pochi ostacoli, territoriali, politici ed economici, non avendo poi garanzia di realizzare il proprio desiderio.
Cosi, con un nodo alla gola, ammettiamo di sentirci impotenti di fronte alle restrizioni che giornalmente il loro popolo è costretto a sopportare.
Un'ammissione di impotenza che ha generato sconforto, al quale hanno risposto con un sorriso, accompagnato da poche semplici parole della madre, Grace: “Dico sempre alle mie figlie di non abbandonare mai la gioia di vivere, nonostante tutto. Altrimenti è la fine”.
 
Ce ne andiamo con un sacchetto di semi di zucca in tasca.
Semi che ci hanno reso buffe ai loro occhi: li abbiamo mandati giù tutti d'un fiato con tanto di buccia, pur di non offendere la loro generosità, perchè non riuscivamo ad aprirli.
 
Il suono della loro risata, lo custodiremo per il resto della vita.
 
Il sorriso, si.
Ma anche l'acqua e la terra, sono elementi cari al popolo palestinese.
Me ne accorgo dal fatto che non ne sprecano una goccia, se e quando gli è concesso usufruirne.
Lo si comprende più a fondo quando, dalla terra arida, devastata e poi rubata, si rimboccano le maniche e mettono in piedi un processo integrato di progettazione di un ambiente sostenibile ed equilibrato: la permacultura.
E cosi, tra le decadenti case di Marda, villaggio palestinese del distretto di Salfit, le cui terre sono state confiscate per la costruzione e l'espansione della colonia israeliana di Ariel, inizio a notare i primi segnali di resistenza non violenta.
I contadini di Marda resistono.
Nonostante tutto, continuano a lavorare i propri terreni, a piantare alberi, costruiscono terrazzamenti, pietra su pietra, per difendere le loro colline.
 
Mi torna in mente la risata di Lina e Domiana, il consiglio della mamma di non arrendersi mai.
Cosi, inizio a capire.
 
Mi fermo in mezzo alla strada e osservo: Ariel è proprio lì, a due passi.
L'insediamento più grande del nord della Cisgiordania troneggia, spavaldo, dalla collina.
Una pressione territoriale e psicologica che, se non cogli con i tuoi occhi, non puoi nemmeno immaginare.
Ma i ragazzini che ci accompagnano, combattuti tra l'imbarazzo e la curiosità, in quel momento sembrano non curarsene.
Vivono in trappola tra il muro della vergogna e gli infiniti posti di blocco, ma nonostante questo non ci negano, nemmeno loro, un sorriso e il desiderio di accoglierci come fossimo di famiglia.
 
Perchè cosi ci si sente, di casa, quando dal niente ti viene dato tutto.
 
Resistenza non violenta che risulta ancora più cruda quando arriviamo ad At-Tuwani, nel distretto di Hebron.
Dalla collina, possiamo facilmente individuare il verde e ricco insediamento israeliano di Ma'on e l'avamposto di Havat Ma'on, costruito a 500 metri da At-Tuwani, formalmente illegale non solo per il Diritto Internazionale delle Nazioni Unite, ma anche per la stessa legge israeliana.
 Hafez, capo del villaggio di 200 abitanti, accompagnato dai volontari di Operazione Colomba, ci racconta della costante rabbia e arroganza imposta dai coloni estremisti del movimento dei nazional-religiosi.
Pochi giorni prima del nostro arrivo, nel tentativo di costruire una cisterna per custodire e salvaguardare la loro preziosa acqua, un uomo del villaggio è stato attaccato e portato in cella.
Ha chiesto ai suoi compagni di vita di non reagire.
Resistenza pacifica. In questo credono.
Cosi, poco prima del suo rientro al villaggio, in poche ore i suoi compagni hanno unito forze e speranza, ultimando il lavoro.
 
Ci sediamo in cerchio, attorno ai racconti che ci avvolgono e ci stordiscono.
Si, perchè si rimane storditi e disillusi, nell'apprendere la triste storia di quelle case invase, di quella gente violentata, di quei bambini scortati, per andare a scuola, nell'attraversare un pezzetto di terra confinante con i coloni.
La presenza degli operatori di pace, garantisce al villaggio la vigilanza dell'esercito israeliano che, quando può e quando lo ritiene opportuno, interviene in loro difesa e, indirettamente, di quei bambini, del loro diritto allo studio e del loro diritto a esistere. A vivere.
E, nel chiedermi di aiutarlo ad aprire i pacchetti delle colorate figurine, il piccolo dai capelli biondi, il suo diritto a vivere me lo sbatte in faccia, con l'ingenuità e la purezza che solo i bambini possono portare con sé.
In quel momento, la sola cosa importante era scoprire cosa ci fosse in quel pacchetto.
Il resto non contava.
Cosi, con i capelli, nascondo gli occhi lucidi e scarto i pacchetti delle figurine, uno dopo l'altro.
Avrei voluto non finissero mai.
Sorrideva con gli occhi, a differenza del bambino che afferrava con rassegnazione le sbarre della finestra di casa, nelle deserte vie di Hebron.
Un silenzio surreale, rotto dai nostri passi.
Silenzio che investe anche il suk della cittadina, luogo solitamente animato da colori e profumi.
La città sta morendo, fra strade interrotte, passaggi bloccati, case blindate e negozi chiusi.
Rimangono i tetti, come unica via di fuga. Via di sola andata, perchè poi è difficile riuscire a tornare a casa.
Ogni lasciata è persa. Pare funzioni cosi.
E, ciò che non viene “lasciato” e non è dunque ancora del tutto perduto, viene quotidianamente mortificato, sotto una rete metallica che è diventata una discarica, tanti sono gli oggetti che dall'alto arrivano, in segno di stizza e disprezzo.
 
E allora risulta inevitabile che le parole del sindaco di Ramla, capoluogo del Distretto Centrale dello Stato d'Israele, stonino, dinnanzi allo stillicidio quotidiano al quale abbiamo assistito.
Parla di pacifica convivenza, vanta progetti di integrazione e interazione fra i due popoli.
Io ho colto solo barriere.
Alcune imposte da chi ha soldi e dunque potere per prevalere forzosamente, altre che scaturiscono da decenni di violenza, usurpazione e indebita appropriazione.
Altre ancora, invece, appartengono in maniera indelebile ai due popoli.
Ma, queste non sono barriere: sono le loro tradizioni, i loro costumi, i loro trascorsi e le loro prospettive.
Condizioni senza le quali essi stessi non esisterebbero.
Condizioni, fino a oggi, utilizzate come elementi di contrasto più che d'incontro.
 
Contrasto che ancor più balza agli occhi a Gerusalemme.
I palestinesi, in questa meravigliosa città, ci vivono.
Ma non esercitano alcun controllo.
9.000 studenti senza scuola, perchè si nega loro la possibilità di costruirne, cosi ci dice il preside Suleiman Rabadi.
Mi affaccio alla finestra e noto i bambini intenti a giocare a palla, nei pochi minuti di ricreazione.
“Fortunati”, paradossalmente, penso.
Una città occupata, alla cui occupazione si reagisce con 20.000 tossicodipendenti, inevitabile risultato delle politiche di soffocamento.
Si parla di alleanza educativa e culturale, soprattutto fra le nuove generazioni, il futuro di questa martoriata terra.
Nel frattempo, nel presente, vista la mancata alleanza, si utilizzano i tunnel sotterranei cosi da attraversare la città e spostarsi con meno fatica.
Le politiche di oppressione, tolgono il fiato a una Gerusalemme dove disegni e prospettive storiche e religiose s'intrecciano e il muro pare l'unico mezzo per ritagliare spazi e diritti.
Un po' come le reti e il filo spinato volto a preservare terra e cielo ad alcuni, nel bel mezzo del centro storico della vecchia città.
 
Già, il muro.
C'è quello sacro, in cui si piange e si prega in nome del Giusto.
E quello divisorio, che lentamente avanza, mangia terreno e calpesta diritti. Vite.
Dopo una settimana, causa tranello monocromatico, quasi non lo si percepisce più.
Ti ci abitui, lo dai erroneamente per scontato.
Poi, dal pullman noti le pie anime che ogni giorno sono costrette a lasciare la macchina “dalla loro parte” per affrontare controlli e tornelli, pur di andare a lavoro, e allora capisci che si va ben oltre il cemento.
Ben oltre i 9 metri di vergogna.
 
Condizioni di contrasto, più che d'incontro.
Un incontro in nome del quale abbiamo marciato nel punto più basso della terra, nel deserto di roccia di Gerico.
Abbiamo dato colore alle gialle e rossicce colline, abbiamo rivendicato a gran voce il rispetto dei diritti umani, dell'uguaglianza dei punti di partenza, del diritto di vivere liberi e fieri delle proprie origini, ricordando che la nostra libertà finisce nel momento in cui inizia quella degli altri.
 
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.
Queste le parole di Antonio Gramsci.
A noi spetta dunque il dovere di parteggiare, agitandoci, istruendoci e organizzandoci, cosi da poter usufruire di entusiasmo, forza e intelligenza, conditio sine qua non per il tanto atteso cambiamento.
 
 
Yallah.
 

Fonte: www.facebook.com/notes/marta-ecca/welcome-to-palestine
13 novembre 2012

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