Nella mia personale classifica delle notizie passate un po’ inosservate, ce n’è una cui sono particolarmente affezionato. A dir la verità, non è la notizia in sé (per molti già nota), ad avermi colpito, ma la sua fonte.
di Pietro Raitano
L’ho trovata a pagina 7 del rapporto “Statistical Review of World Energy” pubblicato nel giugno 2012. Me la tengo buona da allora, e la utilizzo spesso, soprattutto perché la fonte non è il solito gruppo ambientalista (o il solito scienziato preparato) ma la BP, il gigante petrolifero (quello del disastro nel Golfo del Messico, per intenderci).
Ecco, a pagina 7, peraltro in una nota, BP scrive che le odierne riserve stimate di petrolio “saranno sufficienti a garantire 54,2 anni di produzione globale”.
In uno slancio di ottimismo, mi dico che tra “54,2 anni” saremo ancora tutti qui, un po’ più vecchi. Mi chiedo però come sarà il mondo, tra 54,2 anni, senza petrolio. Del tema ci siamo occupati in lungo e in largo e non mi dilungherei ulteriormente. Salvo riflettere su come, ossessionati -ed è comprensibile- da finanza, debito, spread, disoccupazione e tutto il resto, ci stiamo un po’ perdendo, per così dire, i “fondamentali”. Solo che “dimenticare” l’urgenza con cui dovremmo affrontare il tema dell’esaurimento delle risorse è problematico, specie se facciamo nostra la riflessione di Ugo Bardi e Dmitri Orlov quando dibattono della rapidità dei declini e dei collassi dei sistemi, ben superiore a quella della crescita. L’han chiamato “Effetto Seneca” (che, nel primo secolo dopo Cristo, scriveva a Lucilius “sarebbe una consolazione per la nostra debolezza e per i nostri beni se tutto andasse in rovina con la stessa lentezza con cui si produce, e invece l’incremento è graduale, la rovina precipitosa”).
Nel 1999 Donella Meadows scrisse un articolo divenuto celebre (in Italia grazie, ancora una volta, a Ugo Bardi), a proposito dei “punti di leva” sui quali intervenire per cambiare un sistema. La Meadows, famosa per aver partecipato alla realizzazione dello studio “I limiti dello sviluppo”, nel 1972, riprende una altrettanto celebre riflessione di Jay Forrester del Mit di Boston, secondo il quale il mondo si è convinto -intuitivamente- che il punto di leva più adatto a migliorarlo e a garantire benessere a tutti sia la crescita economica. Il problema è che l’assunto è falso (tanto è vero che si tratta di un assunto recente, e non comune a tutte le culture).
A partire da questa riflessione e dalla consapevolezza che -spesso- le intuizioni portano a decisioni errate, la scienziata stila una classifica di “punti dove intervenire in un sistema (in ordine crescente di efficacia)”. Sono dodici: al secondo posto c’è “l’atteggiamento mentale o lo schema ideale con cui il sistema si presenta”. Al primo: “il potere di andare al di là dei modelli”. Ovvero: “c’è un punto di leva ancora più grande del cambiare paradigma. Che è mantenersi indipendenti nell’arena dei paradigmi, mantenersi flessibili, capire che nessun paradigma è ‘vero’ e che tutti, incluso quello che dolcemente modella la tua visione del mondo, è una comprensione tremendamente limitata”.
Cambiando atteggiamento mentale e andando al di là del modello, potremmo forse smettere di far finta che il problema ambientale non ci sia -o non sia prioritario- scoprendo in più che esistono “soluzioni naturali” nel perseguimento del benessere collettivo ben diverse dalla “crescita”.
Un imperativo per chi, da qui a poco, dovrà governare questo nostro Paese, a patto che si ricordi che occupa quella poltrona non per rappresentare gli interessi di chi l’ha votato, ma quelli di tutti. Questo vale anche -e forse soprattutto- per gli eletti provenienti dalla cosiddetta “società civile”, verso i quali nutriamo grandi aspettative. Senza dimenticare, come scrisse Donella Meadows, che “i punti di leva magici non sono facilmente accessibili, anche se sappiamo dove sono e che direzioni dar loro. Non ci sono biglietti a basso prezzo per la conoscenza. Bisogna lavorare su ciò che significa analizzare rigorosamente un sistema o rigorosamente liberarsi dei propri paradigmi e gettarsi nell’umiltà del non-sapere. Alla fine dei conti, sembra che il potere abbia meno a che fare con lo spingere i punti di leva che con lo strategico, profondo, pazzo lasciar andare”. ---
Altreconomia
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