Irina ha gli occhi stanchi e le mani piene di tempo. La schiena oggi fa più male del solito. Mario è caduto dal letto alle cinque del mattino, che si era messo in testa di andare in bagno per conto suo e quasi non si rompe il femore.
Ha sentito un gran tonfo, si è destata dal sonno leggero che l’accompagna da quando vive in questo appartamento al secondo piano in una palazzina grigia e spoglia.
E’ corsa nel corridoio e l’ha trovato disteso e urlante, con una chiazza marrognola e un odore nauseante all’altezza delle natiche. Quasi si spezza la schiena per rimetterlo a letto, dopo avergli lavato il culo e tolto il rivolo di bava colata ai margini delle labbra, giù fino al colletto del pigiama.
La giornata di Irina è scandita dalle imprecazioni del vecchio, farfugliate in uno slang che è un misto di catarro e dialetto per lei incomprensibile.
C’è la pulizia lenta e paziente, le medicazioni per via delle piaghe di decubito. C’è l’alzata e la colazione. La polvere da tirar via e il letto da rifare. Le finestre da aprire, i tappeti da sbattere. La spremuta e i frullati e le minestrine che ormai non mangia più niente di solido. La posta da ritirare, la pensione da prelevare, le bollette da pagare.
Mario è vedovo, la moglie se l’è portata via un cancro al seno 22 anni fa. I suoi due figli, ingegneri, vivono e lavorano a migliaia di chilometri di distanza. Quando va bene passano da quelle parti una due volte l’anno. Lo stipendio di Irina lo coprono loro, così come tutto il resto che serve per la casa e la cura del vecchio, mentre la sua pensione Mario la manda ad altri figli, quelli di Irina.
Ma lei non sa nulla. Quello è solo uno dei tanti italiani a cui badare, il decimo da quando è arrivata in Italia con un furgoncino Ducati mezzo scassato otto anni fa, in cerca di un lavoro e di soldi da mandare a casa. Allevare i figli senza poter star loro accanto. La condanna più atroce, per una madre.
Mario per lei è un vecchio stanco e triste, un uomo solo che a volte sfoga la sua rabbia contro l’unica persona che può e deve stargli accanto, che lo accudisce giorno per giorno accompagnandolo alla morte. Come per gli altri che lo hanno preceduto, e che lei ha salutato con distacco e fastidio, che ogni volta è una casa da cambiare, nuove abitudini e spazi da riempire.
Irina non è una donna cattiva. E’ una questione di sopravvivenza, che ha imparato presto a costruirsi un guscio nel quale ripararsi da tutto. Sentimenti. Ricordi. Paure. Rabbia. Nostalgia. Emozioni. L’unico difetto del guscio è la sua permeabilità. A volte le lacrime scendono lente, pazienti, e riescono a superare il varco, e si fanno pianto che ferisce, assumendo il volto di Besnuk, il piccolo di sei anni che non vede da due, o di Albert, 15, che ormai è un uomo a leggerne le gesta dai resoconti della nonna. Che una volta al mese scrive a sua figlia e le racconta di come vanno le cose. Come stanno i suoi figli, come sta la sua mamma.
Mario un giorno ha trovato una lettera della madre di Irina in mezzo al giornale, e ha deciso di prendere carta e penna e di scriverle per farle sapere un mucchio di cose. Di quando gli scalda il latte al mattino e gli rimbocca le coperte la sera. Della dolcezza e della sua paziente cura. Che lui è un uomo solo e sa essere talmente triste da risultare scontroso, irritante. Del fatto che dovrebbe essere fiera di avere una figlia così. Che i suoi, di figli, l’hanno dimenticato come ci si dimentica di un vecchio cappotto passato di moda. Certo, gli mandano i soldi e fanno qualche telefonata e scrivono pure e-mail con le foto dei nipotini e tutto il resto. Ma è tutto il resto, purtroppo, a mancare.
La madre di Irina non glielo ha mai detto, forse per paura che lei glielo avrebbe impedito, e in fondo è solo grazie a quel denaro se fino ad oggi è riuscita a tenersi stretta la casa di famiglia, per quando Irina tornerà.
Ogni domenica Irina fa un giro al parco, che è a poche centinaia di metri dalla palazzina in cui vive insieme a Mario. Qui incontra alcune connazionali. Si chiacchiera un po’, che è un po’ come tornare a casa per via del tono di voce, della cadenza delle parole, della lingua. Si parlano fitte, su quelle panchine fredde e arruginite, e poco importa ciò che dicono per davvero, è quello che c’è dietro, dentro. E’ il loro modo per viaggiare stando ferme.
Irina ha gli occhi stanchi e le mani piene di tempo. E’ ormai due anni che non vede i suoi figli, e vorrebbe tornare. Oggi Mario è caduto dal letto un’altra volta, e quasi non si rompe l’osso del collo, contro lo spigolo del tavolino di marmo del corridoio.
Fuori fa freddo, sulla città si è stesa come un lenzuolo sporco una cappa di smog che rende l’aria irrespirabile. Alla televisione parlano donne di plastica e uomini di cartone. Non si capisce ciò che dicono o vorrebbero dire. Più urlano, in fondo, più stride il silenzio.
Mario è steso sul letto, dorme. Sente il suo respiro pesante e irregolare, che a volte si fa ronzio, russare. Pensa a questo Paese e a come dimentica i suoi vecchi. Pensa che a casa ci sono meno macchine, meno soldi, meno lavoro. Ma gli anziani non vengono rinchiusi in una casa di riposo, non stanno in un appartamento come topi in una trappola ad aspettare la morte.
Si chiede dove stia la ragione, il progresso. Si chiede se sia più importante avere un lampione ogni 5 metri o un padre, un nonno sotto a ogni tetto. In famiglia. E sente che in fondo la risposta sta scritta nel suo destino. Nella scelta che ha preso, di tornare.
Non prima di aver portato a morire anche Mario. Che non si abbandona, così, un uomo solo. Irina ha gli occhi stanchi e le mani piene di tempo. Oggi il tempo è una finestra chiusa e un mucchio di pensieri che sono già domani.
Dal blog di Marco Boschini
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