Questa mattina mi è stato chiesto come mai mi ostino a voler avviare uno studio che, partendo dalla fotografia dell’esistente, faccia emergere quanti edifici, capannoni, case esistenti ma inutilizzate ci siano nel mio comune cercando alla fine di mettere in campo azioni (incentivi, norme adeguate, idee) che ne consentano un recupero effettivo, trovando il giusto equilibrio tra la convenienza economica e la salvaguardia del contesto e degli usi ammissibili in quelle aree.
La mia “ostinazione” parte dal presupposto che è giunta l’ora (siamo in realtà molto in ritardo) di considerare il territorio un bene comune da preservare al pari dell’acqua che beviamo o dell’aria che respiriamo, ma che al no a nuove cementificazioni, speculazioni e affari di vario genere e natura, sia utile, necessario e giusto affiancare il sì che consenta comunque di soddisfare le esigenze di una comunità di poter contare sugli spazi (alloggi, uffici,ecc.), creando posti di lavoro e ricchezza non a discapito del territorio e dell’ambiente, ma valorizzando operazioni di qualità e bellezza, sostenibilità ed efficienza.
Perché, mi è stato chiesto, una famiglia che vive in città con tutte le comodità esistenti, dovrebbe spostarsi per venire a vivere in una vecchia corte di campagna isolata e senza servizi essenziali?
Anteporre ai numeri un altro metro di misura, affiancare alle incontrovertibili leggi di mercato quelle delbenessere interno lordo e della qualità della vita, è forse un modo altro, non necessariamente il più giusto, di immaginare il futuro. Un futuro diverso e sostenibile.
Dire, ad esempio, che magari in città un asilo nido, un ufficio pubblico, un servizio si possono trovare a un km. da casa mentre in un piccolo paese a qualche chilometro significa raccontare un pezzo di realtà. Ma se per fare quel chilometro impiego, incolonnato nel traffico cittadino, lo stesso temo che ci metto a portare mio figlio a scuola in bicicletta in mezzo ai campi, forse sto raccontando un’altra realtà, che capovolge l’ordine delle priorità, del giudizio.
Un giorno una signora venne a lamentarsi in comune perché la sua vicina, contadina, aveva un “odioso gallo domestico” che la svegliava tutte le mattine alle cinque in punto. Le risposi che, avendo scelto di vivere in campagna, se lo sarebbe anche potuto aspettare e che in ogni caso era molto meglio il canto del gallo della sirena di ambulanza, o del clacson strombazzate e maleducato a cui era sicuramente assuefatta nella precedente sistemazione, in città.
Ora, io non so dirvi come andrà a finire questa storia, se saremo in grado di recuperare il patrimonio edilizio esistente e in che modo. Però so, sento, che questo è il tempo di guardare altrove, con altri occhi.
Dobbiamo scendere e ricominciare, se vogliamo uscire dal fango in cui ci siamo immersi tutti, fino al collo.
Marco Boschini
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