È passata ieri alla camera e all'unanimità, la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica - nota come Convenzione di Istanbul. L'Italia è il quinto Paese a ratificare questa convenzione, dopo Turchia, Albania, Portogallo e Montenegro, e per ora questo atto concreto, che passa al senato, fa tirare un sospiro di sollievo a tutte quelle donne, associazioni, società civile, che si sono battute sul campo perché questo obiettivo fosse raggiunto. Un merito condiviso con quelle donne che nelle istituzioni hanno accettato di ascoltare e che si sono mosse contro la violenza di genere, prima fra tutte la presidente della camera, Laura Boldrini, di cui l'aula di ieri ha riconosciuto «la forza e il coraggio» in questa battaglia.
In un'aula piena - diversamente da lunedì quando è cominciata la discussione e gli scranni erano quasi deserti - gli interventi sono stati tutti favorevoli alla ratifica con direzioni però diverse: intenzioni che fanno intendere quali potranno essere le difficoltà dell'implementazione di questa Convenzione nel nostro Paese. «Ci sono già parecchi disegni di legge riguardo il femminicidio - ha detto Rosa Calipari (Pd) - ma credo che la ministra Idem abbia colto nel segno quando parla di un ddl governativo e una task force in cui sia prioritario coinvolgere le associazioni che di questo si occupano da sempre, sulla base ovviamente del rafforzamento della tutela delle donne, sia di prevenzione sia di protezione, come indica questa convenzione». La ministra Idem, che ieri ha partecipato al funerale di F.L. (la ragazza di 15 anni accoltellata e bruciata viva dal suo ex), nella prima discussione aveva parlato della ratifica come «un utile strumento per introdurre nel nostro ordinamento adeguate misure di carattere amministrativo e misure di carattere normativo».
Ma come applicare una Convenzione così avanzata in tema di discriminazione e violenza contro le donne in un Paese, il nostro, in cui le lacune emergono prepotentemente dalle pagine di cronaca nera? Cosa significa rendere concreta una piattaforma come questa, quando le stesse leggi che abbiamo non vengono ancora applicate, le donne non sono ascoltate nei tribunali, i minori non vengono protetti dagli abusi che subiscono tra le mura di casa? Per Celeste Costantino (Sel) ci sono quattro punti fondamentali da attuare subito: «L'educazione di genere a partire dalle scuole materne, un fondo permanente ai centri antiviolenza che non possono essere finanziati a singhiozzo, l'intervento mirato sugli offender, e un'azione sull'uso-abuso del corpo femminile nelle pubblicità e nei media».
Questa Convenzione, che è vincolante per chi la ratifica, parla anche di «natura strutturale della violenza», dell'importanza «dell'uguaglianza di genere», di «rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», di «autonomia e autodeterminazione» delle donne, di «formazione» di chi lavora con la violenza, e dell'importanza di «promuovere cambiamenti nei comportamenti socio-culturali» eliminando «pregiudizi basati sull'idea di inferiorità della donna».
Nella Convenzione di Istanbul c'è il riconoscimento della violenza domestica e di quella assistita dai minori. Si parla di «vittimizzazione secondaria», a cui spesso assistiamo nei tribunali, di protocolli tra autorità giudiziarie, Pm, autorità locali e regionali, ong, e dell'intera rete che deve essere messa in atto per «proteggere e sostenere» le donne. Si mette nero su bianco il divieto della mediazione familiare in caso di violenza e di «custodia» del minore che «non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini», e di «allontanamento immediato» nel caso di pericolo». Tutti punti che in Italia sono le voragini in cui cadono tantissime donne, sia quelle che denunciano ma soprattutto quelle che non denunciano perché hanno paura di non essere ascoltate e credute.
Eppure ieri si è parlato poco di questo, o meglio solo alcuni interventi hanno fatto accenni alle vere lacune di questo Paese in materia di femminicidio che non è, come detto anche in quell'aula, l'uccisione di una donna in quanto tale, ma tutte le violenze che una donna può subire nell'arco di una vita.
In un'aula piena - diversamente da lunedì quando è cominciata la discussione e gli scranni erano quasi deserti - gli interventi sono stati tutti favorevoli alla ratifica con direzioni però diverse: intenzioni che fanno intendere quali potranno essere le difficoltà dell'implementazione di questa Convenzione nel nostro Paese. «Ci sono già parecchi disegni di legge riguardo il femminicidio - ha detto Rosa Calipari (Pd) - ma credo che la ministra Idem abbia colto nel segno quando parla di un ddl governativo e una task force in cui sia prioritario coinvolgere le associazioni che di questo si occupano da sempre, sulla base ovviamente del rafforzamento della tutela delle donne, sia di prevenzione sia di protezione, come indica questa convenzione». La ministra Idem, che ieri ha partecipato al funerale di F.L. (la ragazza di 15 anni accoltellata e bruciata viva dal suo ex), nella prima discussione aveva parlato della ratifica come «un utile strumento per introdurre nel nostro ordinamento adeguate misure di carattere amministrativo e misure di carattere normativo».
Ma come applicare una Convenzione così avanzata in tema di discriminazione e violenza contro le donne in un Paese, il nostro, in cui le lacune emergono prepotentemente dalle pagine di cronaca nera? Cosa significa rendere concreta una piattaforma come questa, quando le stesse leggi che abbiamo non vengono ancora applicate, le donne non sono ascoltate nei tribunali, i minori non vengono protetti dagli abusi che subiscono tra le mura di casa? Per Celeste Costantino (Sel) ci sono quattro punti fondamentali da attuare subito: «L'educazione di genere a partire dalle scuole materne, un fondo permanente ai centri antiviolenza che non possono essere finanziati a singhiozzo, l'intervento mirato sugli offender, e un'azione sull'uso-abuso del corpo femminile nelle pubblicità e nei media».
Questa Convenzione, che è vincolante per chi la ratifica, parla anche di «natura strutturale della violenza», dell'importanza «dell'uguaglianza di genere», di «rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», di «autonomia e autodeterminazione» delle donne, di «formazione» di chi lavora con la violenza, e dell'importanza di «promuovere cambiamenti nei comportamenti socio-culturali» eliminando «pregiudizi basati sull'idea di inferiorità della donna».
Nella Convenzione di Istanbul c'è il riconoscimento della violenza domestica e di quella assistita dai minori. Si parla di «vittimizzazione secondaria», a cui spesso assistiamo nei tribunali, di protocolli tra autorità giudiziarie, Pm, autorità locali e regionali, ong, e dell'intera rete che deve essere messa in atto per «proteggere e sostenere» le donne. Si mette nero su bianco il divieto della mediazione familiare in caso di violenza e di «custodia» del minore che «non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini», e di «allontanamento immediato» nel caso di pericolo». Tutti punti che in Italia sono le voragini in cui cadono tantissime donne, sia quelle che denunciano ma soprattutto quelle che non denunciano perché hanno paura di non essere ascoltate e credute.
Eppure ieri si è parlato poco di questo, o meglio solo alcuni interventi hanno fatto accenni alle vere lacune di questo Paese in materia di femminicidio che non è, come detto anche in quell'aula, l'uccisione di una donna in quanto tale, ma tutte le violenze che una donna può subire nell'arco di una vita.
da Il Manifesto
Fonte: www.dirittiglobali.it
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